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Quei tre tordi che si credono aquile anti-Cav.
di Giancarlo Perna

Fonte:ilgiornale.it

      Fini, Casini e Rutelli sono tre tordi che si credono aquile capaci di soppiantare il loro benefattore Berlusconi, al quale debbono l'attuale loro persistenza in politica.
      Vogliono la fine del Cav., ma senza di lui non esisterebbero e, comunque, una trimurti di piccoli leader non ne fa uno intero.

Grassetti, colori, parentesi quadre, sottolineature, corsivi
e quanto scritto nello spazio giallo sono gen
eralmente della Redazione

      La maturità è arrivata, si profila la vecchiaia e Gianfranco Fini, 58, Ciccio Rutelli, 56, Pierferdy Casini, 55, sono sempre più delle anime in pena.
      Hanno avuto tanto e al di là dei meriti.
      Nulla è più diseducativo che mietere senza avere seminato: si perde il senso della realtà. È quanto succede ai tre.
      Sono dei tordi ma si considerano delle aquile e si sentono sottovalutati.
      Delusi, incolpano Berlusconi, l’estraneo che li condanna al ruolo di comparse. Così, i tre sparvieri mancati vaneggiano di allearsi. A parte che non è chiaro cosa possano fare unendo le loro debolezze, ci vuole una dose da cavallo d’ingratitudine per prendersela col Cav. Senza di lui, dei tre si sarebbe da anni perduta la memoria.
      Col rimescolamento delle carte seguito al crollo della prima Repubblica, Fini e il Msi (1) avrebbero avuto le ore contate. Solo la mano tesa del Cav gli ha prolungato la vita.
      Idem per Casini, che senza la sponda berlusconiana si sarebbe inabissato assieme alla Dc.
      Rutelli che, diversamente dagli altri due si è schierato a sinistra, è diventato un personaggio opponendosi al Cav, ma con una certa grazia che gli ha permesso di tenere i piedi in due staffe rendendolo interessante a fasi alterne.
      Questo però lo sanno anche le pietre. Più istruttivo, invece, ripercorrere le carriere del trio all’ombra del berlusconismo.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

(1) Fini sì, ma il Msi no di certo.

      Fini nel ’94 era il capetto nostalgico di un partitello neofascista.
      Contro il Msi c’era da decenni l’ostracismo che lo escludeva dai vivi.
      La leadership di Gianfri era ballerina.
      Come oggi, era antipatico, musone e tendente al padreternismo.
      Di lì a poco lo avrebbero sgambettato e sarebbe finito alle ortiche.
      Per uscire dalle secche, Fini si candidò nel ’93 a sindaco di Roma contro Cicciobello Rutelli, l’attuale amor suo.
      Che un leader di partito ambisse a fare il capo di una giunta cittadina la dice già lunga sulle sue magre prospettive.
      Ebbe però in quella occasione un’inaspettata botta di sedere.
      A dargli il tocco, ovviamente virile, fu proprio il Berlusca, il quale dichiarò che, se avesse votato a Roma, lo avrebbe senza dubbio preferito a Cicciobello.
      Era la proposta di un’alleanza e fu la svolta.
      Col Cav, i missini cambiarono pelle e nome.
      Il neofascismo finì in soffitta e gli aennini divennero ministri e sottosegretari.
      Ma già pochi anni dopo, nel ’99, Gianfri si era montato il capino e stimava che il Berlusca, al quale doveva la luce che lo irradiava, gli facesse ombra. Ebbe così la genialata di allearsi con Mariotto Segni e presentarsi con lui alle Europee in concorrenza con il Polo.
      Voleva i suoi spazi, diceva smanioso.
      Ebbe invece una lezione: i due insieme raccolsero il 10,3 dei voti contro il 15,7 della sola An nelle politiche del ’96.
      
Bastonato, Fini rientrò all’ovile e cambiò strategia.
      Negli anni successivi, anziché tradire platealmente il benefattore, cominciò a mettergli i bastoni tra le ruote.
      E non gli andava bene la Lega, e Tremonti non gli piaceva, e questo e quello.
      A ogni querulaggine si beccava una poltrona.
Col secondo governo Berlusconi (2001-2005) ebbe la vicepresidenza del Consiglio, col terzo (2005-2006) la guida della Farnesina, col quarto  —l’attuale—  la presidenza della Camera.
   
      Il resto lo sapete.
      Da un paio d’anni, libero da An, confluita nel Pdl, Fini gioca per sé. Fa il «destra moderna», è intimo di D’Alema, strizza l’occhio a sinistra e sdottora come Di Pietro.
      In nome della legalità, moraleggia sul Cav ma si tiene il trono di Montecitorio che il brigante gli ha donato.
      Si batte per la libertà di stampa contro la legge sulle intercettazioni ma querela i giornali che gli chiedono lumi sulla casetta monegasca.
      Ora, rotti i ponti con il passato  —quello più remoto e il prossimo—  affida il suo futuro alla tresca con Casini e Rutelli.
   
      Pierferdy nel ’94 era un democristianone di seconda fila.
      Allevato dal doroteo Bisaglia, alla sua morte si era appollaiato sulle esili spalle di Forlani.
      Travolto costui da Mani pulite, Casini evitò di naufragare con la Dc di Martinazzoli spogliandosi momentaneamente delle penne del tordo per fare il salto della quaglia in grembo al Cav.
      Si inventò prima un partitino con Mastella dal nome roboante di Centro cristiano democratico.
      Poi lo fuse con un ectoplasma analogo, il Cdu del filosofo vaticano Buttiglione. Ne scaturì la mitica Udc che era la coda del Polo di centrodestra.
      Surclassando Fini nella veste di rompiscatole, riscattò il suo ruolo di parente povero.
      Accettò, come cosa dovuta, la presidenza della Camera e lasciò il ruolo di incendiario al suo vice Follini.
      All’Udc non andava bene niente.
      Non la destra, alla quale doveva le poltrone, perché puntava al centro.
      Non la politica economica del governo perché mirava ai cittadini —scapoli e ammogliati— e non alle famiglie, frusto cavallo di battaglia dc.
      Non i toni garibaldini del Berlusca perché escludevano gli inciuci alla democristiana.
      Soprattutto non gli garbava il Cav che gli sbarrava la strada.
      Quale non si sa. Fu così che i tre «ini»  —Follini, Casini, Fini—  trovarono un comune terreno di intesa nel mettere i bastoni tra le ruote al capo.
     
Ma quello invece di schiattare, fioriva.
      Il primo ad avere una crisi di nervi fu Follini che passò al Pd.
      Casini resistette ma in un crescendo di minacce che infastidirono molti dei suoi seguaci. Stufi delle sue paturnie, uscirono in diversi dall’Udc per accasarsi nel Pdl: i Fontana, i D’Antoni, Baccini, Giovanardi, Rotondi, ecc.
      Quando il partito si ridusse all’osso, Pierferdy piantò il Cav sperando di ridurre l’emorragia e trovare  —grazie al gesto—  più comprensione a sinistra.
      E lì sta, convinto che molti del Pd, per la sua insipienza, e altri del Pdl  —con l’occhio all’anagrafe del Berlusca—  finiranno per aderire alla sua anemica creatura che al momento però veleggia sul sei per cento.
   
      Il terzo tordo è Rutelli.
      Uno, nessuno e centomila.
      Debutta pannelliano con venature liberali.
      Diventa verde e alleato di Democrazia proletaria. Da baciapile. La sinistra lo adotta e lo candida contro il Cav nel 2001.
      Si rompe le ossa, crea la Margherita, è tra i fondatori del Pd e appoggia Veltroni.
      Inquieto, quando arriva Franceschini se ne va con l’idea di allearsi con Casini e costituisce una microentità, detta Alleanza per l’Italia, che nelle ultime amministrative o europee, non ricordo, ottiene buoni risultati nelle enclave appenniniche, tra i pescatori di telline e, secondo alcuni studiosi, in qualche convento di suore (2)  conquistate dalla faccia di bravo ragazzo del brizzolato Piacione.
 

 

 

 

 

 

 


(2)
Frutto del Concilio Vaticano II...

      L’evanescenza è il comune denominatore delle tre figure descritte.
      Vogliono la fine del Cav ma senza di lui —giova ripeterlo— non esisterebbero. Fini e Casini perché sue creature. Cicciobello perché, in mancanza, non avrebbe altro da proporre.
      Se si mettono insieme, come pare vogliano, si eliderebbero a vicenda.
      Un cattolico (3)  voterebbe Casini o Rutelli, ma non Fini.
      Un uomo di destra (4), purché moderna, si prende Fini ma non Casini o Rutelli. Idem un comunista deluso.
      Ex liberali, ex socialisti, ex missini li snobberebbero tutti e tre.
      Restano i confusi che potrebbero trovare le anime gemelle nei tre confusionari.
      Ma una trimurti di piccoli leader —come si sa— non ne fa uno intero.
      Inoltre —l’alleanza tra Fini e Segni insegna— le ammucchiate improvvisate non raggiungono mai la somma dei voti dei partiti da soli.
      Ergo: auguri ragazzi. (5)
 

 

 

 

(3) Evidentemente il bravo giornalista Giancarlo Perna non ha idee chiare sul Cattolicesimo e sui Cattolici: i Cattolici, quelli veri (e non vaticanosecondisti) non votano per un concubino né per un verde pannelliano liberaloide.

(4) Anche qui bisogna vedere cosa s'intende per "destra", che di certo non è quella di Fini, comunque egli la intenda...


(5) sarebbe più esatto dire ragazzacci, ma in senso bonario... discoli, indisciplinati.

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